Bollettino COP21 – 1 Dicembre
PARIGI, I CAPI DI STATO ALLA COP21
Decine di leader globali hanno parlato all’apertura della conferenza: fra interventi concreti e (in alcuni casi) autocelebrativi, il senso di urgenza è ciò che prevale.
Si è tenuta ieri a Parigi la cerimonia di apertura della COP21, ventunesima Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici.
Alla cerimonia hanno partecipato anche i Capi di Stato di oltre cento Paesi: mai prima nella storia delle conferenze delle Nazioni Unite si erano riuniti così tanti Capi di Stato in una sola giornata. Numerosi sono stati i messaggi di solidarietà al popolo francese per i recenti attentati, a cui hanno fatto seguito interventi relativi allo scenario negoziale internazionale ed alle rispettive misure nazionali adottate.
Suggestiva l’apertura di François Hollande:
“non riesco a separare la lotta al terrorismo da quella al riscaldamento globale. Queste sono le due grandi sfide che dobbiamo affrontare perché dobbiamo lasciare ai nostri figli non solo un Mondo libero dal terrore ma dobbiamo lasciargli un Pianeta protetto dalle catastrofi”
Di seguito, gli estratti di alcuni degli interventi:
FRANCIA
Il primo a prendere la parola è stato il Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, nonché presidente designato della COP21, seguito dal Presidente francese Francoise Hollande e il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon.
Nel suo intervento, il Segretario ha ricordato che a settembre sono stati siglati i Sustainable Development Goals che impegnano tutti per un’agenda sostenibile, sottolineando come la COP21 sia l’occasione per creare una piattaforma politica che consenta a tutti di lavorare verso un unico ed ambizioso obiettivo. In particolare, Ban Ki Moon ha auspicato il raggiungimento di un Accordo contenente i seguenti quattro criteri:
- durabilità: un chiaro messaggio al mercato per una transizione verso una low carbon economy in modo che funga da garanzia per le generazioni future.
- dinamicità: l’Accordo deve essere in grado di adattarsi all’evolversi del mondo e dell’economia.
- solidarietà: adattamento e mitigazione in supporto dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici.
- credibilità: tutti i paesi devono essere d’accordo a controllare le emissioni tramite l’applicazione di un meccanismo di revisione degli INDCs, su base quinquennale.
CINA
Il Presidente Xi Jinping ha sottolineato l’importanza di arrivare ad una governance globale per il cambiamento climatico all’altezza delle sfide del secolo. Per tale obiettivo sarà fondamentale la mobilitazione non solo dei governi, ma anche degli attori non governativi, delle industrie e della società intera. Il leader cinese sostiene un rapporto fruttuoso e cooperativo tra paesi industrializzati e in via di sviluppo, pur tenendo fermo il principio delle “Responsabilità Comuni Ma Differenziate” (CBDR), che implica la definizione di contributi nazionali per contrastare cause e conseguenze dei cambiamenti climatici secondo le rispettive specificità e responsabilità storiche nazionali. La Cina, infine, si è espressa a favore del trasferimento di competenze e tecnologie e del rafforzamento degli strumenti di supporto finanziario per la transizione verso un’economia a basso impatto ambientale.
GERMANIA
L’intervento di Angela Merkel è stato particolarmente deciso: la cancelliera tedesca ha infatti dichiarato che sulla base delle proiezioni attuali, effettuate sull’effetto aggregato dei contributi nazionali volontari (INDCs) presentati, al termine del negoziato di Parigi questi non saranno consistenti con il mantenimento dell’aumento di temperatura media globale al di sotto dei 2° entro la fine del secolo (neppure nel caso di un esito positivo della conferenza, ndr.), obiettivo ormai universalmente riconosciuto dalla politica. Questa è una “cattiva notizia”, ha affermato la Merkel. Per porvi rimedio la Germania, e con essa l’Unione Europea, sostiene quindi che l’Accordo debba essere ambizioso, comprensivo, equo e vincolante. In particolare, secondo la strategia tedesca, è necessario istituire un meccanismo di verifica quinquennale per permettere di adattare e migliorare i contributi nazionali di ogni paese secondo un principio non regressivo. Ovvero, con impegni aggiornabili esclusivamente al rialzo.
RUSSIA
Nel suo intervento, Vladimir Putin ha affermato che il il cambiamento climatico sia la sfida più coraggiosa da intraprendere per l’umanità, ed illustrato come la Russia abbia già ridotto del 33.4% le proprie emissioni e preveda di estenderne la riduzione di un ulteriore 13.5% entro il 2020: tutto ciò sarebbe possibile anche grazie all’uso di strumenti tecnologici.
Tuttavia, grandi dubbi persistono sul reale impegno russo, il cui INDCs è stato giudicato ampiamente insufficiente (rispetto a quanto le responsabilità storiche avrebbero richiesto) da un recente report di alcune associazioni della società civile e le cui misure si basano in maniera probabilmente eccessiva sulla capacità di assorbimento delle foreste.
AUSTRALIA
Il primo ministro australiano Turnbull ha espresso fiducia e ottimismo per il raggiungimento di un Accordo soddisfacente, che funga da piattaforma per un’azione comune. A margine del suo intervento, Turnbull ha inoltre annunciato che l’Australia ratificherà il secondo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto e contribuirà con almeno un miliardo di dollari alla costruzione della resilienza climatica e alla riduzione delle emissioni serra.
Ciononostante, anche l’impegno australiano per Kyoto è estremamente ridotto, avendo il Paese presentato (nel 2012, alla COP18 di Doha) un target di riduzione pari allo 0.5%.
ITALIA
Il Premier Renzi ha rimarcato la necessità di un’azione urgente e collettiva al cambiamento climatico in maniera da non far pagarne le conseguenze ai nostri figli: “oggi, non solo biologi o climatologi, ma anche gli economisti ci dicono di fare la nostra parte, facendo quindi del climate change una questione economica”. Renzi ha proseguito affermando come l’Italia arrivi a Parigi con “le carte in regola” visti i suoi sforzi nello sviluppo della geotermia e del fotovoltaico, e che, con la nuova legge di stabilità, 4 miliardi di Euro saranno investiti per i cambiamenti climatici da qui al 2020. Il Premier, inoltre, ha presentato le azioni delle compagnie nazionali ENI ed ENEL come esempi virtuosi in Italia e nel mondo: hanno “cambiato pelle”, ci tiene a sottolineare il Premier, diventando aziende leader del processo di innovamento green. Renzi ha concluso il suo intervento riconoscendo come sia “un privilegio allestire la scena in cui poi i nostri figli agiranno. Come politici siamo chiamati a realizzare un capolavoro, dobbiamo difendere il grande spettacolo della natura”.
Pur non soffermandosi sulle parole spese riguardo le aziende italiane (ed in particolare su ENI), che possono essere discutibili, è indubbio come l’intervento del Premier abbia mancato di affrontare aspetti chiave dell’agenda nazionale ed internazionale: da quale sia la programmazione italiana per ridurre le emissioni nei prossimi anni, la posizione sulle nuove trivellazioni e le modalità per attuare – dalla Strategia – un Piano nazionale di adattamento, a quale sia la posizione dell’Italia circa il processo negoziale, specialmente sugli obiettivi a lungo termine, l’equità e l’intervento a favore dei paesi più vulnerabili.
STATI UNITI
Il Presidente Obama ha sottolineato il senso di urgenza percepito dai Paesi, ricordando che il 2015 marcherà probabilmente il nuovo record delle temperature medie globali da quando abbiamo rilevazioni affidabili. Un’urgenza imposta anche dal fatto che se a Parigi non verranno intraprese azioni profonde, non potranno sussistere scenari “sereni” né per grandi né per piccoli Paesi. Ha poi affermato, riportando una citazione, come “noi siamo la prima generazione ad assistere ai cambiamenti climatici e allo stesso tempo l’ultima in grado di risolvere il problema”. Il Presidente degli Stati Uniti ha infine ricordato la svolta verde avvenuta durante il suo mandato, la quale ha dimostrato che il contrasto tra economia ed ecologia non esiste e che il vero nemico è il cinismo. Anche sugli Stati Uniti, tuttavia, è necessario chiarire come quella che è stata – indubbiamente – una svolta importante per il Paese è ancora ben lontana dall’essere ciò che gli Stati Uniti dovrebbero mettere in campo. Il Clean Power Plan, infatti, contrariamente a quanto riportato da molti media, non ha comportato una riduzione complessiva delle emissioni del 32%: il dato era riferito ad un solo settore dell’economia (quello della produzione di energia elettrica), e a livello complessivo l’incidenza sarebbe inferiore al 15%.