Bonn: l’indecisione degli USA e la nuova leadership energetica di Cina ed India
di Chiara Soletti
A due giorni dalla fine del negoziato intermedio dell’UNFCCC di Bonn si continua a parlare dell’impatto delle decisioni dell’amministrazione Trump in ambito ambientale: già dall’inizio delle negoziazioni gli Stati Uniti hanno lanciato segnali poco incoraggianti presentandosi con una delegazione di soli sette membri. Questo dato risulta particolarmente importante considerando che Cina ed India, tra i principali contributori mondiali di gas serra, sono presenti a Bonn con un numero rilevante di delegati, nel caso della Cina ben 40.
Non ha sorpreso quindi la dichiarazione della delegazione americana sul cambio di priorità rispetto all’amministrazione Obama. L’obiettivo principale è ora la riduzione del precariato attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro e l’Accordo di Parigi rappresenta per i Repubblicani un ostacolo alle promesse di rilancio economico fatte durante la campagna elettorale. Con l’ordine esecutivo 2017b, Trump ha inaugurato lo scorso gennaio, l’“American First Energy Plan” (AFEP) rimpiazzando di fatto il “Climate Action Plan” (CAP) della precedente amministrazione.
“Il grave cambio di direzione delle politiche statunitensi da parte dell’amministrazione Trump, se completamente attuato e non compensato da altri attori, comporterà un appiattimento delle emissioni statunitensi, arrestandone la corrente tendenza al ribasso” ha dichiarato il Prof. Niklas Hohne del New Climate Institute.
Il vuoto nella leadership alla lotta al cambiamento climatico creato dagli Stati Uniti non ha però tardato a riempirsi. Sulla scena internazionale, infatti, Cina e India si stanno distinguendo per il loro impegno nel disinvestimento dalle fonti energetiche fossili: la prima ha visto diminuire il proprio consumo di carbone per il terzo anno consecutivo e mira ad accelerarne la decrescita attraverso la chiusura e riconversione delle centrali elettriche a carbone (nell’ultimo anno ne sono state chiuse un centinaio). La seconda, seppur con un programma meno definito rispetto a quello cinese, sta impiegando sempre più risorse per ridurre le proprie emissioni: nel dicembre del 2016 e’ stato lanciato il nuovo piano energetico nazionale, che prevede maggiori investimenti nelle rinnovabili e lo stop alla costruzione di nuove centrali elettriche a carbone.
Fino a cinque anni fa era impensabile che questi due Paesi potessero pianificare di far fronte alla crescente richiesta energetica senza ricorrere largamente a fonti fossili. Oggi, invece, le energie rinnovabili rappresentano non solo la soluzione al loro fabbisogno energetico, ma un’occasione di sviluppo economico. Negli ultimi 10 anni l’energia prodotta da fonti rinnovabili e’ diventata estremamente competitiva: l’avanzamento tecnologico ha reso le stazioni di produzione energetica sempre più efficienti; e la maggiore disponibilità di energia a basso costo ha fatto aumentare la richiesta di auto elettriche, mercato in cui ora Cina e India sono ora in competizione. I dati economici e sulle emissioni sono talmente incoraggianti che, secondo il Climate Action Tracker, c’è la possibilità che entrambi i Paesi superino il proprio livello di impegno presentato nei rispettivi Contributi Nazionali Volontari (NDC) aggregati all’Accordo di Parigi.
Nel frattempo, l’amministrazione Trump ha cercato di rilanciare l’industria mineraria statunitense, da anni in stagnazione, rimuovendo la moratoria sulle licenze minerarie sui terreni federali; ciononostante, il mercato non sembra aver mostrato particolare interesse al riguardo. Sintomo del fatto che investire in tecnologie e fonti energetiche sostenibili oggi non è più solo la scelta più giusta, ma anche (sempre più) quella più conveniente in ottica futura.