Giustizia climatica e parità di genere: l’incontro con WEDO
L’incontro con Juliana Vélez e Majandra Rodriguez Acha della Women’s Environment & Development Organization (WEDO).
di Chiara Soletti
WEDO è un’organizzazione non governativa di advocacy americana con sede a New York, impegnata nel campo della parità dei diritti femminili nelle politiche globali. La sigla, esplicitata in Women’s Environment & Development Organization, richiama i due ambiti d’azione privilegiati, – ambiente e sviluppo, – e viene scandita nel logo istituzionale su due righe, WE/DO, per mandare un chiaro messaggio d’impegno sul campo.
Alla COP21 di Parigi, dicembre 2015, l’organizzazione è stata impegnata sui diversi fronti della Women’s Global Call for Climate Justice, campagna globale organizzata collettivamente da un gruppo di organizzazioni femministe regionali impegnate nella lotta al cambiamento climatico. Tra i membri dello staff di WEDO impegnati nel supporto alla campagna si sono due giovani femministe sudamericane: Juliana Vélez, advocate dei diritti umani, e Majandra Rodriguez Acha, attivista impegnata nella promozione del concetto di giustizia climatica tra i giovani.
Juliana Vélez, 26 anni, è colombiana. Ha conseguito una laurea in Sviluppo Internazionale e Assistenza Umanitaria con specializzazione in Studi di Genere alla New York University. Il suo interesse per lo sviluppo internazionale l’ha portata a lavorare per diverse organizzazioni non governative e sovranazionali. Dal 2015 è consulente della divisione Peace and Security di UN Women e ha sviluppato ricerche sulla relazione tra cambiamento climatico e condizione femminile. Dopo questa esperienza ha realizzato che avrebbe potuto impiegare le conoscenze acquisite con i suoi studi anche in ambito ambientale: entrata a far parte di WEDO come Advocacy Project Associate, ha coordinato il Mobilizing Women for Climate Justice Project, iniziativa di mobilitazione femminile nell’ambito della Women’s Global Call for Climate Justice, occasione del suo incontro con Majandra Rodriguez Acha.
Majandra Rodriguez Acha, peruviana di 26 anni, si è laureata in Antropologia, Sociologia s Sviluppo Sostenibile allo Swartmore College di Philadelphia negli Stati Uniti. Attivista sociale e politica, ha un’ampia esperienza nella gestione di progetti educativi in ambito di discriminazione, empowerment giovanile e sviluppo sostenibile. Il suo interesse per la parità di genere legata alle problematiche ambientali nasce dal vissuto personale. Come donna sudamericana, infatti, ha realizzato come i ruoli di genere siano profondamente radicati nella società definendo la declinazione di ogni rapporto umano. Lo stesso avviene nel rapporto con il mondo naturale: i termini di relazione con l’ambiente vengono imposti dalla società e nell’attuale situazione è chiaro che ci sia qualcosa di sbagliato alla base di questo principio. Queste riflessioni personali si sono concretizzate nel 2013 con la fondazione di TierrActiva Perù, collettivo e rete nazionale del movimento giovanile peruviano per il clima. L’organizzazione si è poi unita alla Global Call coordinata da WEDO e Majandra ha così potuto supportare la campagna attraverso azioni di advocacy e copertura mediatica.
Quando viene loro chiesto che cosa pensano del risultato della COP21, il sentimento è comune: la comunità internazionale ha considerato l’accordo finale come un successo diplomatico, ma una parte della società civile non ha certamente festeggiato.
Per Juliana “l’accordo rappresenta una passo avanti, ma il testo del trattato rimane debole in termini di giustizia climatica. Mancano dei termini decisivi in materia di diritti umani. C’è ancora molto da fare per cambiare la situazione!”
Il concetto di giustizia climatica scaturisce infatti dalla considerazione obiettiva che i più colpiti dai cambiamenti climatici sono coloro che meno hanno danneggiato l’ambiente, come ad esempio le popolazioni indigene. Logica vorrebbe, dunque, che spettasse loro maggior sostegno per partecipare agli sforzi collettivi per invertire la tendenza, ma così non è.
il testo del trattato rimane debole in termini di giustizia climatica. Mancano dei termini decisivi in materia di diritti umani
Il termine “giustizia climatica” suggerisce dunque la profonda connessione tra tematiche ambientali e sociali rendendo evidente come l’attuazione di questo principio richieda l’integrazione dei diritti umani nelle politiche ambientali. Juliana su questo punto sottolinea che “l’accordo è debole proprio perchè i diritti dei gruppi più vulnerabili non sono stati presi sufficientemente in considerazione, come ad esempio i diritti delle ragazze e delle donne indigene.”
Majandra è ancora più diretta: “I diritti umani e i loro principi sembrano essere stati menzionati per dare soddisfazione formale a chi insisteva per la loro inclusione. Nella sostanza, quindi, non molto è cambiato: la parità di genere, per esempio, se inizialmente era prevista in modo trasversale nel trattato, nella parte vincolante del testo finale è citata solamente negli articoli 7 (adaptation action) e 11 (capacity building), restando totalmente esclusa dagli ambiti più incisivi (climate finance, mitigation). Un principio generico, quindi, che non si sa se e come verrà messo in essere”.
Entrambe denunciano come si stia continuando a usare un’impostazione mentale obsoleta. “Il sistema che permette di abusare delle risorse naturali è lo stesso che crea disparità sociale ed economica. Non esiste una gerarchia tra queste problematiche. Quando finalmente sarà accettato che tutto è connesso, avremo maggiore forza e unità tra movimenti per poter davvero cambiare le cose,” – dichiara Majandra. – “Quello che è fondamentale adesso è intensificare l’azione di attivismo e di advocacy. È sempre più imperativo che la società civile e l’opinione pubblica siano coinvolte e facciano sentire ai propri governi che il cambiamento climatico deve essere tra le loro priorità. L’attivismo è uno strumento importantissimo, soprattutto in tempo di elezioni. Intensificando la pressione a livello nazionale, sarà possibile che i governi prendano in considerazione un aumento al rialzo del proprio di impegno prima della fine della seconda fase del protocollo di Kyoto. Non c’è più tempo da perdere.”
E il pensiero è già alla COP22, novembre 2016, Marrakesh, Marocco.