Guida al disinvestimento dai combustibili fossili
Traduzione italiana della guida sui fondamenti del disinvestimento dalle fonti fossili pubblicata da The Guardian: che cosa significa, perché è così urgente e quali sono gli effetti sul cambiamento climatico.
Che cos’è il disinvestimento dai combustibili fossili?
Il disinvestimento è l’opposto dell’investimento: è la rimozione degli investimenti in azioni, titoli di stato o altri fondi. Il movimento mondiale per il disinvestimento dai combustibili fossili chiede alle istituzioni di rimuovere i propri soldi dalle società petrolifere, legate al carbone o al gas sulla base di motivi sia morali che economici. Classici target delle richieste di disinvestimento sono università, istituzioni religiose, fondi pensione, enti locali e fondazioni di beneficienza.
Si tratta della campagna di disinvestimento con il tasso di crescita più rapido della storia, e, secondo uno studio della Oxford University, potrebbe causare seri danni alle aziende legate a petrolio, carbone e gas. Le precedenti campagne di disinvestimento hanno avuto come obiettivo l’industria del tabacco, quella del gioco d’azzardo o le aziende che contribuivano ad alimentare il conflitto in Darfur, ma il disinvestimento è probabilmente meglio conosciuto per il suo ruolo nella lotta contro l’apartheid in Sud Africa.
Di che cosa si tratta e perché disinvestire?
Quasi tutti gli argomenti a favore del disinvestimento dai combustibili fossili rientrano in due categorie: quella morale e quella economica.
Partendo dall’argomentazione morale, questa trova il suo fondamento nei principi della matematica. Diverse ricerche scientifiche dimostrano che, al fine di rispettare gli obiettivi internazionali per limitare l’aumento delle temperature a 2°C e prevenire così gli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici, tra i due terzi e i quattro quinti delle fonti fossili devono rimanere nel suolo.
Tuttavia le aziende legate ai combustibili fossili contano sul fatto che questi obiettivi non saranno raggiunti e continuano perciò a estrarre e vendere dalle proprie riserve, cercandone anzi attivamente sempre di nuove. Facendo questo, dirigono la razza umana su un sentiero che conduce ad un cambiamento climatico irreversibile, con conseguenze quali l’innalzamento del livello delle acque, alluvioni, siccità, sempre più malattie, più conflitti e crisi migratorie.
Le Nazioni Unite hanno prestato la loro “autorità morale” alla campagna per il disinvestimento, mentre Desmond Tutu[1] ha affermato che “le persone che hanno una coscienza devono rompere i legami con le corporazioni che finanziano l’ingiustizia del cambiamento climatico”.
La seconda argomentazione è di tipo finanziario, e si basa sulla premessa che se gli accordi internazionali sul cambiamento climatico verranno rispettati, gli investimenti nei combustibili fossili perderanno il proprio valore. L’ipotesi che queste “riserve bloccate” stiano creando una “bolla di carbonio” da migliaia di miliardi di dollari che potrebbe portare il mondo ad una nuova crisi finanziaria è l’oggetto di un’indagine della Banca d’Inghilterra, dopo che il suo direttore Mark Carney ha affermato pubblicamente che “la grande maggioranza delle riserve fossili non possono essere bruciate”.
La Banca Mondiale si è dichiarata favorevolmente rispetto all’argomento finanziario per il disinvestimento, con il presidente Jim Yong Kim che ha dichiarato che “ogni società, investitore e banca che protegge nuovi ed esistenti investimenti che tengano conto dei rischi climatici è semplicemente pragmatico”.
Anche se l’impatto del disinvestimento sui prezzi dei titoli potrebbe essere relativamente piccolo, il danno alla reputazione può comportare serie conseguenze finanziarie.
Che cos’è il budget di carbonio?
Il budget di carbonio è la quantità di gas serra che può ancora essere immessa nell’atmosfera senza che la soglia di allarme per il riscaldamento globale venga superata, ovvero l’obiettivo dei 2°C concordato dai governi.[2] Nel 2013, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC, o comitato intergovernativo sul cambiamento climatico) ha stimato per la prima volta una cifra per il budget di carbonio[3], annunciando che il mondo produce circa 50 miliardi di tonnellate di gas serra all’anno. È anche molto probabile che più del 20% dell’anidride carbonica (CO2) emessa finora resterà nell’atmosfera per più di 1.000 anni anche nel caso in cui le emissioni causate dall’uomo dovessero cessare. Ciò significa che se continuiamo ad emettere CO2 ai livelli attuali, useremo il budget di carbonio rimanente entro i prossimi 15-25 anni.[4] Siccome abbiamo già sfruttato i due terzi del budget, l’IPCC ha esortato i governi ad agire rapidamente, prendendo in considerazione il concetto e la stima del budget di carbonio come base per la negoziazione degli accordi internazionali.
Che cos’è la “bolla di carbonio”?
La “bolla di carbonio” è un termine usato da regolatori, società finanziarie e attivisti per descrivere la sopravvalutazione dei titoli legate alle riserve di gas, carbone e petrolio possedute dalle imprese operanti nel comparto dei combustibili fossili in tutto il mondo. Se i governi perseguono gli obiettivi internazionali sulle emissioni di anidride carbonica al fine di frenare il cambiamento climatico, tra i due terzi e i quattro quinti di queste riserve non dovrebbero essere utilizzate, rendendole prive di valore. Siccome le società di combustibili fossili sono tra le più ricche al mondo, queste” riserve bloccate” hanno il potenziale di innescare una nuova crisi finanziaria nel caso in cui gli investitori si ritirino velocemente uno dopo l’altro.
La bolla di carbonio potrebbe stare gonfiando titoli per un valore di migliaia di miliardi di dollari, come riporta una ricerca pubblicata nel 2013 dal think-tank “Carbon Tracker” e una realizzata dall’economista Lord Nicholas Stern, l’autore dell’eponimo report del 2006 commissionato da Gordon Brown – allora ministro delle finanze britannico – riguardo alle conseguenze economiche dei cambiamenti climatici.
La Shell ha rifiutato questa teoria, preannunciando in una lettera ai suoi azionisti che i combustibili fossili rappresenterebbero tra il 40% e il 50% del rifornimento energetico fino al 2050 e oltre. La Banca d’Inghilterra ha condotto un’inchiesta per quanto riguarda i danni potenziali di una “bolla di carbonio” sull’economia, sottolineando l’importanza di attuare una transizione graduale degli investimenti dai settori attuali a quelli a bassa intensità di carbonio e cercando di prevedere il più possibile i rischi associati.
Chi ha disinvestito?
Più di 220 istituzioni nel mondo si sono impegnate in vari modi a disinvestire dai combustibili fossili, tra cui fondi pensione, fondazioni, università, istituti religiosi ed enti locali.[5]
Una coalizione di fondazioni filantropiche, inclusi gli eredi della fortuna petrolifera Rockefeller, ha iniziato a ritirare i suoi investimenti dalle fonti fossili nel 2014, mentre tra le città che hanno disinvestito si annoverano San Francisco, Seattle e Oslo. Il più grande fondo sovrano del mondo, il Norway’s Government Pension Fund Global (GPFG – Fondo Pensioni del Governo Norvegese), ha rivelato di recente di avere ridotto i suoi investimenti in 114 società, tra cui aziende produttrici di sabbie bituminose, per motivi riguardanti i cambiamenti climatici.
La Chiesa d’Inghilterra ha disinvestito dai combustibili fossili più inquinanti, mentre il World Council of Churches (Consiglio Mondiale delle Chiese), che rappresenta mezzo miliardo di cristiani nel mondo, ha eliminato ogni sorta di investimenti nei combustibili fossili.
Nell’ottobre del 2014, la Glasgow University è stata la prima in Europa a impegnarsi in questa direzione. Negli Stati Uniti d’America, la Syracuse University è la più grande ad avere disinvestito dall’industria del carbone, del petrolio e del gas, mentre la Stanford University sta rimuovendo le sue azioni dalle società del carbone. Il 23 giugno del 2015, la Federazione Mondiale delle Chiese Luterane ha annunciato che avrebbe disinvestito dalle società di combustibili fossili, azione che interessa gli investimenti attuali e futuri e che è stata confermata nel consiglio svoltosi nell’agosto 2015 a New Orleans.
Chi si è espresso contro il disinvestimento?
Una serie di istituzioni chiave si sono esplicitamente rifiutate di disinvestire.
Nel maggio del 2015, lo Swarthmore College (USA), il luogo di nascita del movimento per il disinvestimento dai combustibili fossili, ha preso la sorprendente decisione di non disinvestire, asserendo di concentrare i suoi sforzi ambientalisti sul cambiamento delle abitudini di consumo.
Nel marzo del 2015, il Guardian ha lanciato la campagna “Keep it in the Ground”, che fa appello alle fondazioni di beneficienza più grandi del mondo – la Wellcome Trust e la Bill and Melinda Gates Foundation – affinchè disinvestano. Entrambe le istituzioni si sono rifiutate: la Wellcome Trust sostiene che il coinvolgimento con le società di combustibili fossili rappresenti un modo più efficace per limitare le emissioni di CO2, mentre la Gates Foundation ha declinato qualsiasi commento.
L’ex sindaco di Londra Boris Johnson ha rifiutato l’appello del consiglio comunale a disinvestire il fondo pensione della città dai combustibili fossili, sostenendo che il disinvestimento è “un precipizio” e che il Regno Unito ha bisogno di affidarsi maggiormente alla tecnica del fracking – ovvero l’utilizzo di potenti getti d’acqua in grado di spaccare la roccia per farne uscire più agevolmente gas e petrolio – come fonte di approvvigionamento di energia.
L’ allora segretaria dell’ambiente inglese Liz Truss si è rifiutata di incoraggiare il disinvestimento dei fondi pensione dei parlamentari dai combustibili fossili, affermando al Guardian: “Credo che il giusto modo [per influenzare gli investimenti] sia attraverso gli obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio”.
La rettrice dell’Harvard University, Drew Gilpin Faust, ha respinto il disinvestimento come “né giustificato, né saggio”, chiamando i suoi investimenti “una risorsa economica, non un uno strumento per incitare ad un cambiamento politico o sociale”. La University of Edinburgh ha declinato gli appelli al disinvestimento, affermando che avrebbe dato la priorità all’impegno preso con le società dei combustibili fossili.
C’è differenza tra il disinvestimento dal carbone, dal petrolio e dal gas?
Esistono diverse opinioni tra gli attivisti e le istituzioni su che livello e che tipo di disinvestimento sia necessario intraprendere. Secondo il Lord liberal-democratico Dick Taverne, la campagna “Keep it in the Ground” “trascura la necessità di distinguere tra i vari combustibili fossili. La minaccia più significativa di un pericoloso aumento delle temperature globali deriva dall’uso del carbone… Nel breve o medio termine, il sostituto più efficace del carbone è il gas. Gli Stati Uniti hanno ridotto le emissioni di carbonio più di ogni altro paese poiché hanno sostituito il carbone con il gas”.
Varie istituzioni hanno preso simili posizioni nelle loro scelte di disinvestimento. La Stanford University (USA) e la London School of Hygiene and Tropical Medicine, per esempio, hanno deciso di disinvestire solamente dal carbone, mentre la Chiesa d’Inghilterra ha optato per il carbone termico e le sabbie bituminose, sostenendo che questi combustibili sono i più inquinanti a livello di emissioni di gas serra.
Ma Jamie Henn di 350.org ritiene che sia importante che le istituzioni disinvestano sia dal carbone che dal petrolio e dal gas:
“nessuno [di questi combustibili] è compatibile con un futuro sostenibile. Il carbone è un target facile. La maggior parte dei titoli investiti nell’industria del carbone hanno valori così bassi che, se ancora ne possiedi, o sei stupido o semplicemente malevolo. Il disinvestimento è una questione di buon senso. Ciò detto, gli impegni di disinvestimento fanno una differenza enorme, visto che accelerano il declino dell’industria e spingono i governi ad agire. Il carbone è quello che inquina maggiormente l’ambiente, ma è l’industria del petrolio che ha la maggiore influenza corruttiva sulla politica. Sono gli attori con il potere maggiore, che dobbiamo stigmatizzare per fare spazio al progresso ”.
Alcuni, come l’autrice e attivista Naomi Klein, hanno fatto appello affinchè il crollo dei prezzi del carbone e del petrolio sia utilizzato come un’opportunità per contrastare il cambiamento climatico e “sbarazzarci del petrolio finché i prezzi sono bassi.”
Quali sono le argomentazioni contro il disinvestimento?
I critici del movimento per il disinvestimento dai combustibili fossili affermano che quest’ultimo è ipocrita, perché una società occidentale globalizzata (e con essa gli individui che la costituiscono) è dipendente da carbone, gas e petrolio per i suoi fabbisogni quotidiani.
Altri, come il giornalista del Financial Times John Gapper, sostiene che il movimento dovrebbe avere come obiettivo le aziende che emettono grandi quantità di emissioni di carbonio, anziché solamente i produttori. Gapper afferma che il movimento per il disinvestimento è solamente “un gran gesto simbolico” che non avrà alcun impatto finanziario perché altri investitori compreranno i titoli delle industrie che producono carburanti fossili.
Altri ancora, come l’editorialista del Times Matt Ridley, affermano che il movimento non è etico se si considera la questione della povertà, e cioè il fatto che i combustibili fossili sono necessari per consolidare l’economia dei paesi in via di sviluppo. Secondo la sua critica, il movimento per il disinvestimento esige che le istituzioni “diano priorità al benessere dei nostri pro-pro-nipoti sulle spalle o a discapito dei poveri odierni”.
Molte di queste argomentazioni vengono confutate nell’articolo sui 10 miti del disinvestimento.
Noi tutti usiamo i combustibili fossili, il disinvestimento non è dunque ipocrita?
Naturalmente molti dei prodotti e delle utenze di cui facciamo uso nella vita quotidiana – dal riscaldamento alla plastica – dipendono dai combustibili fossili. Ma il movimento per il disinvestimento non manderà in bancarotta l’industria da un giorno all’altro, e in effetti il suo impatto maggiore è a livello politico più che economico. Il movimento sostiene che i combustibili fossili ci portano verso livelli catastrofici di cambiamento climatico e che il mondo ha bisogno di basare il suo consumo su risorse ben più sostenibili, e che questa transizione deve avvenire velocemente.
I consumatori possono naturalmente essere pro-attivi e apportare cambiamenti al loro stile di vita, che rimane un fattore importante. Tuttavia, sono i produttori che hanno il potere di fare la differenza che porterà o non porterà a raggiungere gli obiettivi internazionali stabiliti per evitare che il cambiamento climatico avvenga su una scala catastrofica e irreversibile. Questi produttori sono però attualmente impegnati a seguire modelli di business che ci porteranno ben oltre i limiti ammissibili.
I titoli sui combustibili fossili non verranno comprati da altri?
Sì, altri potrebbero comprare i titoli, sebbene l’ammontare che viene disinvestito attualmente è troppo piccolo per influenzare significativamente il mercato e ridurre il prezzo delle azioni, e di conseguenza quest’ultime non potranno venire acquistate a basso prezzo. Questo ci porta dritto all’essenza dell’impatto del movimento per il disinvestimento, il cui scopo non è causare la bancarotta economica dell’industria delle fossili, ma farlo moralmente e politicamente. Come una ricerca dell’University of Oxford mette in evidenza, la perdita finanziaria dovuta alla campagna del disinvestimento con il tasso di crescita più veloce nella storia non sarà causata tanto dalla vendita dei titoli, quanto tramite la perdita di reputazione che subiranno le società dei carburanti fossili a causa della loro stigmatizzazione.
Tuttavia, la campagna di disinvestimento dai combustibili fossili non si limita ad un’asserzione morale: ne sostiene anche una economica. I titoli investiti nelle società di combustibili fossili alimentano dei modelli di business che sono totalmente incompatibili con gli accordi internazionali sulla mitigazione del cambiamento climatico. Se i governi rispettano questi accordi, gli investimenti perderanno il loro valore, dunque disinvestire ora sembra economicamente più ragionevole.
Le organizzazioni che disinvestono perderanno dei soldi?
Non necessariamente: in realtà potrebbero persino guadagnarci economicamente. Società come la HSBC hanno avvisato i propri clienti dei rischi legati agli investimenti nei combustibili fossili. Malgrado le aziende operanti nel settore delle fossili siano tra le più redditizie al mondo, l’argomento delle riserve bloccate – ossia il fatto che gli investimenti nei combustibili fossili perderanno il loro valore se gli accordi internazionali sul cambiamento climatico verranno rispettati – suggerisce che il valore di tali aziende è largamente sovrastimato.
Il prezzo del carbone è diminuito sensibilmente nel corso degli ultimi anni, e il prezzo del petrolio ha fatto altrettanto negli anni recenti. Un’analisi del MSCI, società leader a livello mondiale per quanto riguarda l’indice del mercato azionario, ha evidenziato come i portafogli azionari privi di titoli legati ai combustibili fossili abbiano dato risultati più soddisfacenti negli ultimi cinque anni rispetto a quelli comprendenti titoli in aziende legate a carbone, gas o petrolio.
Ci sono anche molte opportunità di investimento nell’economia verde. Alcuni ricercatori prevedono che le energie rinnovabili diventeranno la fonte di elettricità meno costosa nel prossimo decennio: il costo di quella solare è diminuito di due terzi tra il 2008 e il 2014, secondo il think-tank IEA.
Il disinvestimento significherà perdere influenza sulle società che producono combustibili fossili?
Jeremy Farrar, direttore del Wellcome Trust, sostiene questo punto di vista affermando che “non tutte le aziende legate alle fonti fossili sono uguali”, e possono essere influenzate attivamente attraverso l’impegno degli azionisti. Questo potere va perduto se un’istituzione disinveste.
Tuttavia esistono pochi casi di impegno che hanno portato a un cambiamento significativo. La stessa Wellcome Trust, per esempio, afferma che non possono comunicare simili risultati senza perdere la fiducia delle aziende sulle quali stanno facendo pressione. Un caso recente che viene spesso citato riguarda le risoluzioni degli azionisti della British Petroleum e della Shell, i quali hanno richiesto di verificare quanto i loro modelli di business siano compatibili con gli accordi internazionali sul cambiamento climatico. Tuttavia, sono stati sollevati dei dubbi sul potenziale impatto delle risoluzioni e la misura in cui gli attivisti abbiano collaborato con i giganti del petrolio dietro le quinte.
Il coinvolgimento degli azionisti può funzionare in alcuni casi – ad esempio per convincere le aziende a pagare almeno il salario minimo ai propri dipendenti o ad adottare pratiche di riciclo migliori – ma come ha sottolineato l’attivista Bill McKibben è improbabile persuadere una società a impegnarsi in un cambiamento che in ultima analisi la porterà a ritirarsi dal mercato. Il leader ambientalista Jonathon Porritt ha passato molti anni cercando di influenzare come azionista tali società, ma ha concluso recentemente che i suoi sforzi sono stati futili. Vale anche la pena notare che alcuni regolatori di mercato, ad esempio negli Stati Uniti, non permettono questo tipo di strategia da parte degli azionisti.
I miei soldi sono investiti nei combustibili fossili?
Quasi certamente. Molte delle banche più importanti, tra cui HSBC, Lloyds, Barclays, Royal Bank of Scotland e Santander, hanno milioni e milioni investiti nel settore. La maggior parte dei fondi d’investimento, incluse le migliaia di miliardi dei fondi pensione, investono ampiamente nei combustibili fossili e non offrono ai risparmiatori un’alternativa che escluda tali titoli, nonostante la richiesta sia in aumento. Nel Regno Unito, l’organizzazione benefica per gli investimenti responsabili Share Action aiuta a influenzare gli enti che gestiscono i fondi pensione, mentre Move your Money fa lobbying sulle banche affinché disinvestano.
Come parte della campagna “Keep it in the Ground”, il Guardian ha collaborato con Share Action per creare uno strumento online che aiuti a contattare la persona giusta nel fondo pensione di riferimento.
Va bene, sono interessato a disinvestire. Che cosa implica? Quanto ci si mette?
Se è personalmente interessato/a a disinvestire o a fare pressione sulle istituzioni alle quali è connesso/a per disinvestire, può verificare quali sono le campagne sul tema attive nel suo Paese.[6] Se ricopre una posizione di potere all’interno di un’organizzazione che potrebbe considerare l’ipotesi di disinvestire dai combustibili fossili, dovrebbe prima di tutto consultare i suoi consulenti per gli investimenti. È probabile che vi indirizzeranno ai principi dell’ONU per un investimento responsabile, che, seppure non privi di significato, rimangono meri principi e non richiedono un concreto impegno di disinvestimento.
Un primo passo comunemente intrapreso è quello di congelare qualsiasi nuovo investimento nei combustibili fossili durante lo svolgimento di una revisione, la quale può durare diversi mesi. Varie istituzioni hanno definito il disinvestimento in vari modi, ma il movimento internazionale per il disinvestimento esorta alla rimozione degli investimenti dalle 200 maggiori aziende a livello mondiale (100 legate al carbone e 100 a gas e petrolio) in termini di emissioni di carbonio previste sulla base delle loro riserve.
Una volta che un’istituzione prende l’impegno di disinvestire può rimuovere i suoi investimenti diretti in queste società, o in maniera immediata o gradualmente in un arco di tempo determinato.
Successivamente vi è la questione degli investimenti indiretti: questi sono molto più difficili da rimuovere poiché si trovano in fondi combinati, ossia mix di titoli provenienti da diversi conti. I gestori di fondi che offrono opzioni d’investimento prive di combustibili fossili sono attualmente una minoranza. Gli investitori possono aprire un dialogo con i gestori o con i consulenti riguardo ai rischi legati al carbonio, oppure passare a gestori che siano disponibili e in grado di creare fondi privi di titoli relativi alle fonti fossili. Per la seconda opzione è necessario molto più tempo: un orizzonte di cinque anni è in questo caso normale.
Altre organizzazioni, come la University of Sydney e un gran numero di fondi pensione, hanno intrapreso la strada della decarbonizzazione. Ciò significa l’impegno a eliminare le emissioni di anidride carbonica da tutte le aziende nei loro portafogli, anziché prendere come obiettivo esclusivamente le società legate ai combustibili fossili. Anche le Nazioni Unite hanno appoggiato la coalizione di investitori che ha intrapreso questo approccio, chiamata la coalizione del portafoglio della decarbonizzazione.
Dove possono essere reinvestiti i soldi disinvestiti dalle azioni in combustibili fossili?
Benché il movimento del disinvestimento non stabilisca dove gli investitori debbano spostare il proprio denaro, alcune istituzioni e attivisti hanno rivolto l’attenzione verso la green economy. Quando la Syracuse University ha disinvestito dai combustibili fossili si è impegnata allo stesso tempo a investire in una serie di soluzioni e processi green, che includono l’energia solare, i biocombustibili e il riciclaggio spinto. Diverse tra le fondazioni principali che fanno parte della coalizione Divest-Invest, tra cui la Rockefeller Brothers Fund e la Wallace Global Fund, hanno condiviso questo approccio.
Ikea è un esempio di multinazionale che si è focalizzata sugli investimenti in energie rinnovabili anziché sul disinvestimento dai combustibili fossili, investendo 1.1 miliardi in tecnologie per le energie pulite e riuscendo due anni fa a soddisfare quasi la metà del suo fabbisogno energetico totale grazie alle proprie fonti di energia rinnovabile. Le piattaforme di investimento etico possono aiutare a costruire un portafoglio di investimento “pulito”, come fa Ethex, un’organizzazione non-profit che lavora con i singoli investitori e consulenti finanziari per mettere in evidenza alternative economiche sostenibili rispetto ai classici investimenti in borsa.
Quali organizzazioni investono nei combustibili fossili?
La maggior parte delle istituzioni, tra cui università, organizzazioni religiose, enti locali, fondi pensione e organizzazioni benefiche posseggono dei capitali che sono quasi certamente investiti in una certa misura nell’industria dei combustibili fossili. Gli attivisti stanno mettendo in discussione questi investimenti a livello locale, nazionale ed internazionale, e come risultato molte organizzazioni hanno iniziato a disinvestire.
Puoi scoprire di più sul disinvestimento attraverso la campagna internazionale “Fossil Free” – condotta da 350.org – e la campagna #DivestItaly per quanto riguarda l’Italia.
Traduzione dell’articolo “A beginner’s guide to fossil fuel divestment” – scritto da Emma Howard e apparso sul Guardian il 23 giugno 2015 – a cura di FOCSIV e campagna #DivestItaly.
[1] Arcivescovo anglicano e attivista sudafricano, vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1984.
[2] L’Accordo di Parigi, stipulato in occasione della COP 21 nel Dicembre 2015, ha in seguito sancito l’obiettivo di mantenere l’aumento di temperatura globale entro la fine del secolo ben al di sotto dei 2°C, perseguendo ogni sforzo per rimanere entro il limite di 1.5°C .
[4] Secondo una recente analisi effettuata dall’ong internazionale 350.org, il lasso di tempo in cui il budget di carbonio andrebbe ad esaurirsi sarebbe ancora più limitato.
http://www.divestitaly.org/lasciamoli-sotto-terra-ma-quanto/
[5] In seguito ad una crescita esponenziale, nel Novembre 2016 le istituzioni che in tutto il mondo hanno preso impegni di disinvestimento risultano essere 623, rappresentando un patrimonio del valore complessivo di circa 3.400 miliardi di dollari.
http://gofossilfree.org/commitments/
[6] In Italia è attiva la campagna #DivestItaly, che mira a diffondere informazioni e aumentare la consapevolezza rispetto al tema del disinvestimento dalle fonti fossili e a esortare una serie di istituzioni a prendere impegni concreti di disinvestimento.