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Dic

Tutte le questioni spinose alla COP26

di Jacopo Bencini

Raro che un miracolo si ripeta. Alla seconda conferenza globale sul clima dell’era Trump-Bolsonaro, la COP25 di Madrid conclusasi ieri a pranzo, non si è infatti ripetuto quanto osservato un anno fa nella neve di Katowice, dove con un inatteso colpo di reni il multilateralismo ONU riuscì a strappare in extremis l’approvazione del libro delle regole per l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi. Molti i temi rimandati al 2020 nella percezione, comunque, che un rimando possa forse essere meglio di una mezza decisione, o di una decisione aggirabile.

La presidenza cilena, assistita nelle ultime ore dai colleghi spagnoli, ha mantenuto fino all’ultimo istante la volontà politica di portare a casa risultati ambiziosi sintetizzati in quel motto, “è tempo di agire”, che per due settimane ha decorato ogni angolo della grande Fiera di Madrid. Con la maggior parte degli accordi di tipo procedurale e istituzionale già presi nel 2018, il dibattito avrebbe dovuto dare regole solide al futuro mercato delle emissioni (Articolo 6 dell’Accordo di Parigi), alla revisione dei meccanismi di cooperazione su perdite e danni (“Loss and Damage”), alle politiche condivise di adattamento, al rilancio dell’ambizione sui tagli alle emissioni dei principali paesi climalteranti con nuovi obiettivi nazionali da presentare entro il 2020. Purtroppo, su nessuno di questi punti si sono visti sviluppi significativi. Importanti ma piccoli passi in avanti sono stati registrati, invece, con l’adozione – abbastanza insperata – del Piano per l’Azione di Genere (GAP), il rinnovato supporto al partenariato di Marrakech sulle azioni climatiche non-statali e l’inserimento di riferimenti ai saperi indigeni ed ai diritti dell’umanità in alcuni punti dei testi finali della conferenza (dopo due settimane di discussioni sugli impegni di salvaguardia dei diritti umani e delle comunità indigene nei documenti relativi ai meccanismi di mercati del carbonio).

L’articolo 6 dell’Accordo rappresenta forse il nodo centrale di questa evoluzione politica della governance climatica globale, trattando infatti di diversi tipi di meccanismi di cooperazione finanziaria tra i paesi del mondo, che a Parigi si immaginava regolata da un unico accordo quadro sulle emissioni della maggior parte delle attività produttive umane. Obiettivo ambizioso quanto necessario, ma estremamente complesso. Tanto complesso che gli osservatori più attenti già prima di Madrid dicevano che probabilmente sarebbe stato meglio uscire dalla Fiera senza un accordo, appunto, piuttosto che con un accordo debole. Alla fine, così è stato. A schierarsi contro misure solide rispetto al futuro mercato globale del carbonio e a favore, invece, di un sistema debole o eufemisticamente “più flessibile”, i soliti “poteri fossili” (Arabia Saudita e Gruppo Arabo, Stati Uniti) da un anno sostenuti vigorosamente dal Brasile e dall’Australia. Un sistema debole, per come proposto, avrebbe comportato rischi acuti di ‘free riding’, il probabile ripetersi di debolezze strutturali già osservate nell’esperienza con CDM e REDD+. Un ulteriore punto di frizione è stata la possibilità di riconoscere sotto il nuovo regime dell’Accordo di Parigi i crediti derivanti da progetti di riduzioni delle emissioni approvati nell’ambito del Protocollo di Kyoto. Una possibilità, questa, che avrebbe indebolito i già insufficienti impegni presi nell’ambito dell’Accordo di Parigi.

Non è andata meglio con la revisione del meccanismo di Varsavia su perdite e danni (Loss & Damage). Molti paesi in via di sviluppo avrebbero voluto vedere ampliate le funzioni del meccanismo esistente – che, ricordiamo, tratta per adesso di cooperazione, studio, dialogo tra le parti piuttosto che di responsabilità giuridiche e relative compensazioni – contestualmente ad una profonda revisione della sua governance. L’intero sistema nasce infatti sotto il Protocollo di Kyoto e gli stati più vulnerabili puntano da anni a rafforzarlo, possibilmente con fondi propri e ricadute strategiche sulle azioni delle varie agenzie ONU. Gli Stati Uniti, contrari all’erogazione di ulteriori fondi nonostante la loro prossima dipartita dall’Accordo, hanno sabotato la discussione durante l’intero negoziato fino al definitivo naufragio con il rimando al 2020 deciso dalla COP. Emblematico l’intervento del delegato di Tuvalu, che ha definito l’operato degli Stati Uniti un “crimine contro l’umanità”. Meno drastico ma altrettanto preoccupato, visti anche i tragici eventi estremi occorsi nel 2019 in Mozambico, Malawi, Senegal, Bangladesh il portavoce della rete dei paesi più poveri, Sonam Wangdi, che volendo vedere il bicchiere mezzo pieno ha salutato come un passo in avanti la creazione di un nuovo gruppo di esperti a coordinamento di studi e azioni, il Santiago Network for Loss and Damage, sostenuta tra gli altri dall’Unione Europea.

Infine, nessuna novità positiva rispetto alla richiesta di maggiore attenzione all’adattamento da parte dei paesi in via di sviluppo ed al tema dei temi, quello della revisione al rialzo degli impegni nazionali di taglio delle emissioni rispetto ai testi già depositati da Parigi ad oggi, chiaramente inadatti rispetto ai tagli necessari per rispettare  gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.. L’Unione Europea ad esempio, che con la nuova commissione Von der Leyen punta ad assumere (come nel passato) una leadership in campo climatico tramite la sua proposta di Green Deal, presentato proprio durante i giorni della COP. Il pacchetto è sicuramente da accogliere positivamente, sia perché tiene conto dell’obiettivo già identificato a marzo della neutralità carbonica entro il 2050 – mettendo quindi il continente in linea con gli obiettivi minimi di Parigi – sia perché contempla un fondo di 100 miliardi per la giusta transizione sociale ed economica, oltre alla previsione di un primo esempio globale di aggiustamento tariffario frontaliero sulle emissioni, immaginato per spiazzare commercialmente la concorrenza di paesi esportatori meno inclini ad attuare misure di trasformazione della propria produzione). Con una Cina oggi attendista rispetto alle elezioni USA 2020 ed una buona parte del “mondo libero” in subbuglio democratico (tra cui lo stesso Cile, presidente della COP25), l’UE a 27 rappresenta in questo momento l’unico potenziale alleato dei gruppi di paesi più in pericolo, nonostante storiche distanze su alcune questioni.

La COP26 sarà quindi necessariamente un’ennesima COP di finalizzazione delle definizioni delle regole del gioco, e di discussione sulle risorse da mettere a budget. Una COP, come sappiamo, ospitata a Glasgow da un Regno Unito forse politicamente più stabile ma fuori – salvo ulteriori novità – dall’Unione Europea, in partenariato con l’Italia. L’Italia ospiterà a Milano i lavori preparatori e l’innovativa “COP dei giovani”, di stampo governativo (ogni governo, infatti, invierà una delegazione di giovani selezionati) e non sovrapposto al pluriennale e consolidato processo COY, guidato invece dalla società civile. Nei piani del Ministro dell’Ambiente Costa, incontrato da Italian Climate Network assieme alle altre realtà della Coalizione Clima nella giornata di giovedì, i tre appuntamenti sono strettamente collegati: dalla “COP dei giovani, che coinvolgerà più di 400 delegati giovanili da tutto il mondo, dovrà infatti uscire una “Dichiarazione di Milano” da far arrivare direttamente sul tavolo dei delegati dei lavori preparatori ONU, che – anche sulla base di quanto deciso nei tradizionali negoziati tecnici di giugno a Bonn – andranno poi a identificare l’agenda dei lavori della COP vera e propria, quella di Glasgow. Al Ministro Costa la società civile italiana ha chiesto con chiarezza impegni forti sulla riduzione delle emissioni e rispetto al nuovo Piano Nazionale Integrato per l’Energia ed il Clima (PNIEC), possibilmente verso la definizione di nuovi impegni di riduzione europei da presentare proprio entro COP26 e comunque nel contesto di un rilancio globale dell’ambizione, termine forse abusato ma in ultima analisi assente nei risultati collettivi di questa non entusiasmante COP25.

Nonostante i pochi passi in avanti, quella di Madrid non è stata sicuramente la COP “dell’azione” immaginata dall’indebolita presidenza cilena. Ma non è stata, per fortuna, neanche quella delle decisioni mal prese. Speriamo che quella di Glasgow-Milano potrà tradursi nella COP del rilancio degli impegni di Parigi, , chiudendo le partite rimaste aperte e ridando vigore allo slancio del 2015. Da seguire, in questo senso, gli sviluppi del vertice UE-Cina di settembre e le elezioni statunitensi dei primi giorni di novembre 2020. Il tempo di rimandare è terminato.

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